Dico “comfort food” e pensate “dolci”. Ma conforta davvero?
Vi sembrerà incredibile, ma lo stress causa circa la metà delle assenze dal lavoro in tutta Europa [1]. Il passo da una condizione stressante all’allungo verso un dolcetto o un pacchetto di patatine è davvero breve. L’espressione “comfort food” rievoca a ciascuno l’immagine della propria leccornia preferita (e proibita) ed esso è stato sdoganato ormai da tempo, come necessario per poter fronteggiare le sempre crescenti richieste della nostra quotidianità; richieste che, spesso, superano quelle che noi percepiamo essere i nostri limiti.
Pare però che, alla lunga, la ricerca continua del contentino sotto forma di strappo alla regola alimentare non appaghi ed anzi faccia cadere in una spirale di dipendenza simile a quella per le droghe o l’alcol.
Tra i lavoratori colpiti da burn-out, infatti, gli episodi della cosiddetta “alimentazione emotiva” o di alimentazione incontrollata sono significativamente più frequenti e regolari, rispetto a quelli in cui “cadono” soggetti sotto stress ma non in condizioni di burn out [2]. Nei primi, va da sé, le misure per il controllo del peso sono del tutto inefficaci.
Se da una parte è sicuramente necessario lavorare per prevenire che una persona arrivi a “bruciarsi” a causa del proprio lavoro (bilancio tra richieste e risorse, supporto sociale, possibilità di sviluppo personale e professionale ecc.), dall’altra non va sottovalutato l’effetto che il cibo ha sulla capacità di risposta agli stimoli esterni.
Eh sì, perché il modo in cui mangiamo influisce sul nostro umore al pari, o in certi casi pure di più, del collega che ti guarda storto o del capo che ti sottovaluta.
Se mi abituo a mangiare un dolcetto ogni volta che mi sento a disagio, quel piacere momentaneo, dato dal rilascio di dopamina nel cervello, a seguito dell’aumento repentino di glucosio nel sangue, durerà di volta in volta sempre meno e mi porterà a cercare sempre più spesso il contentino. Si parla di “sindrome da deficienza di compensazione” [3] e si verifica nei cosiddetti golosi in modo molto simile, come detto, ai dipendenti da alcol, nicotina o droghe come la cocaina. Non serve aggiungere che questo circolo vizioso porta a una progressiva perdita di autostima, dovuta da una parte all’incapacità di controllo, dall’altra all’aumento, anch’esso incontrollato, di peso corporeo. Ma non solo: ci impedisce di apprezzare altri fattori, che di per sé ci farebbero provare piacere, se il nostro meccanismo di rilascio della dopamina non fosse compromesso: una giornata di sole, un fiore cresciuto nella crepa di un marciapiede, il disegno che ci regala nostra figlia… Questo tipo di stress prolungato, dovuto al mancato apprezzamento di ciò che di piacevole ci circonda, sommato ai fattori più direttamente legati al lavoro, contribuisce a sprofondare in quella condizione di esaurimento fisico e psichico, perdita del senso di sé e del proprio lavoro e cinismo (“cosa vuoi farci? ormai è così”) che caratterizzano e definiscono lo stato di burn-out.
Niente più dolcini allora? Sì, certo: ma non come fuga. Che come già sapete, non è mai una buona soluzione.
Ignifughi saluti
dalla vostra consulente nutrizionale
Tatiana Gaudimonte
info@loveyourbody.ch
Fonti:
[1] 2014-15 EU-OSHA´s Healthy Workplaces Campaign.
[2] “Occupational burnout, eating behavior and weight among working women” – N Nevanperä – A, J Clin Nutr 2012
[3] “Dopamine and glucose, obesity, and reward deficiency syndrome” – K Blum – Front in Psych 2014